Volontariato
QUAL È LA POSTA IN GIOCO?
Di Dani Noris
Cosa spinge tanta gente a telefonare a Caritas per chiedere di poter
fare del volontariato?
Molti vengono per un'esigenza naturale di fare qualcosa per chi sta peggio.
Altri vengono perché sono coscienti dell'importanza di un gesto semplice
e continuo nel loro cammino di fede. Tante persone sono spinte dalla solitudine
e cercano un po' di compagnia e un luogo dove compiere un gesto generoso. Per
talune è il disperato tentativo di trovare un po' di pace. Qualcuno viene
su indicazione medica, qualcun altro lo fa come mossa strategica nella speranza
di un posto di lavoro retribuito.
Qualsiasi sia il motivo, anche quello apparentemente sbagliato è l'espressione
del bisogno e del desiderio che qualcosa di buono o di meglio accada nella propria
vita.
Perché questo bisogno trovi risposta, questo desiderio possa essere realizzato
è necessario che uno possa fare un'esperienza autentica, bisogna cioè
che non venga persa di vista la realtà, altrimenti si pone la propria
speranza nell'attivismo, nella generosità o nell'altruismo e si finisce
prima o poi con l'essere delusi.
La realtà, cioè la vita nella sua concretezza giorno per giorno,
anche il mio gesto di sostegno a un'opera come Caritas: nel curare il malato
in ambulatorio, nel far compagnia all'anziano al ricovero, nel far la spesa
alla signora che vive sola, nel sostenere le cooperative del Terzo Mondo attraverso
la vendita del loro artigianato, nell'accogliere in modo adeguato ogni cliente
che entra nei mercatini e che spesso mette a dura prova la nostra pazienza.
Tutto quanto facciamo, deve avere come unico scopertine/copo quello di far crescere la
nostra persona perché ognuno di noi sia sempre proteso, attento e vigile
alla "realtà che è Cristo". Soccorrere l'altro nel bisogno
deve innanzitutto rispondere al nostro personale bisogno che è Gesù
Cristo, realtà della mia vita. Altrimenti quello che facciamo è
filantropico, è umanitario, è un accumularsi di buone azioni ma
non riesce a rispondere al desiderio di bene e di felicità che abbiamo
e che ci muove.
Quante volte siamo rimasti confusi di fronte alla lettera di S. Paolo ai Corinti
in cui con parole durissime dice che anche la cosa più nobile o generosa
di questo mondo se manca la carità non vale nulla: che potremmo dedicare
tutto il nostro tempo libero per opere buone, distribuire tutte le nostre ricchezza
ai poveri, dare la nostra vita per un altro, ma se ci manca la carità
non costruiamo niente.
Come facciamo a capire che quel che stiamo facendo, magari con tanta dedizione,
è inutile? Dove sta l'errore? Credo che ognuno di noi, se è sincero
si rende conto quando sta costruendo sulla sabbia, perché ha il cuore
inquieto, vive in un affanno continuo ed è carico di pretese nei confronti
degli altri. Direi che il malumore è compagno fedele del nostro errore.
Siamo nell'errore quando ci sacrifichiamo per affermare la nostra idea, per
realizzare un nostro progetto e non per affermare la realtà che è
Cristo. Quando mettiamo in comune le nostre cose senza mettere in comune noi
stessi.
La Carità è figlia o sorella della condivisione. È necessario
riconoscere che quella persona non ci è estranea, fa parte della nostra
vita, non è diversa da me perché per lui come per me Cristo si
è incarnato. Ho sempre sotto gli occhi quello che un grande amico ha
scritto a questo proposito: "Tutta la parola "carità"
riesco a spiegarmela quando penso che il Figlio di Dio, amandoci, non ci ha
mandato le sue ricchezze come avrebbe potuto fare, rivoluzionando la nostra
situazione, ma si è fatto misero come noi, ha "condiviso" la
nostra nullità.